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  • Immagine del redattoreMira Genovese

Simone Pase, Senior Brand Strategist e Account presso DESIGN GROUP ITALIA.

Aggiornamento: 12 mag 2021

Ho avuto il piacere di conoscere Simone Pase, in occasione di una serie di incontri di lavoro. Fin da subito mi ha colpito la sua precisione, quasi maniacale, la cura per il dettaglio e la capacità di comunicare in modo persuasivo, accattivante.


Negli anni la sua figura professionale non ha mai smesso di evolvere, portandolo a curare progetti e clienti importanti con la consapevolezza e il know-how di chi ha fatto esperienze variegate, unite a un entusiasmo ardente, proprio di chi ha appena iniziato.


In un mondo come quello del marketing e della comunicazione, sempre più competitivo e frammentario, non è frequente trovare una figura che unisca ad un curriculum ricco di competenze anche un carattere contraddistinto da una continua voglia di apprendere e aggiornarsi. Un’energia positiva che ho avuto il piacere di intervistare.


Come nasce Simone Pase lavorativamente parlando e quali esperienze di vita ti hanno indirizzato verso il tuo profilo professionale?


Ho sempre avuto una personalità molto eclettica, per questo ho scelto di iscrivermi alla IULM in Scienze e Tecnologie della Comunicazione, e nonostante il parere contrario dei miei professori di liceo. Sono convinto che una persona debba sempre assecondare le proprie naturali inclinazioni. Scegliere un percorso che non ci coinvolge pienamente, non ci accalora, non ci totalizza, può portare a una professionalità affannosa e, ancor più grave, a una vita frustrante, poco appagante.

All’epoca non sapevo quale direzione professionale avrei intrapreso ma sapevo che, in quella facoltà, avrei affrontato tematiche e argomenti per me di grande fascino: tutto sommato, era già un buon inizio.


Quali materie ricordi con maggiore interesse o ti hanno lasciato di più?


Mi hanno aperto tutte molto la mente. Alcuni Professori, in particolare, li ricordo come veri e propri mentori: fondamentali per la mia crescita umana e culturale.

Gianni Canova - oggi Rettore e ai miei tempi Professore di Storia e Analisi del linguaggio Cinematografico – fu ad esempio una grande guida. Non ci ebbi a che fare granché personalmente, ma solo poterlo ascoltare, osservare ha costituito per me un modello di Eccellenza. Ricordo ancora la sensazione che provai alla sua

prima lezione: mi resi conto che il livello si

era alzato notevolmente. Era in grado di coniugare magistralmente la letteratura e la semiotica applicata. Studiare cinema mi appassionò tantissimo e influenzò di molto il mio modo di intendere la comunicazione e attualità: mai come in quest’epoca il cinema – o meglio, il linguaggio audiovisivo – agisce e trasforma la percezione che abbiamo di noi e delle realtà.


Oltre a Canova ricordo bene anche le mega lezioni di Basso Fossali - per Semiotica, materia cardinale - Stefano Lombardi Vallauri per Storia ed Analisi dei Linguaggi Musicali, vero mentore con cui ho condiviso il percorso di tesi: a lui dovrò sempre grande riconoscenza per il modo con cui mi ha seguito, formato, supportato: un eccellente musicologo, un grande pedagogo, una straordinaria persona.


Da piano di studio, scelsi di integrare questi corsi anche con materie come Marketing (I-II) e Teorie e Tecniche della Promozione d’Immagine, ottenendo le basi di quello che, in seguito, sarebbe divenuto il mio percorso professionale, branding e design in particolare.


Quanto è stato difficile per te posizionarti professionalmente?


Sono stato molto fortunato: appena laureato m’imbattetti nell’annuncio di un’agenzia vicino a casa. Era la Vittorio Mancini & Associati, all’epoca una delle migliori in Italia nel packaging design. Ma ancora non ne ero a conoscenza: senza pensarci troppo inviai il CV, mi presero dopo poco come stagista.


Iniziai nella divisione Eventi: ero coinvolto nell’organizzazione di una grande fiera relativa alla danza. In particolare, mi occupavo della vendita e gestione degli spazi agli espositori, proponendo loro le diverse soluzioni in termini di aree e di costi.

L’esperienza mi fu utile a capire che gli eventi non sarebbero stati il mio futuro: la fiera non ebbe grande successo e non sopportavo l’idea che, nonostante avessi lavorato a ritmi intensissimi, il mio impegno potesse essere vanificato anche per fattori esogeni dall’evento in sé (motivi meteorologici; imprevisti dell’ultimo momento; controprogrammazioni; ect). Avevo dato un esame di Gestione e Organizzazione degli Eventi Culturali e di questo rischio ero stato avvisato ma, alla prova dei fatti, gli eventi avevano perso la loro allure.


La fortuna, però, fu che Vittorio Mancini in persona decise di trattenermi e di portarmi nella divisione strategica dell’agenzia, dove continuai a lavorare per i primi 3 anni assieme ad Alberto Zavatta, ottimo professionista e strategist di lungo corso dell’agenzia.

Vidi l’agenzia vivere diverse fasi fino a quando, a 4 anni dal mio arrivo, Vittorio venne a mancare. Lo ricordo con grande riconoscenza e col sorriso, era una persona ironica, estremamente positiva e sinceramente generosa. Nonostante la differenza anagrafica (lui 67 anni, io appena 28), avevamo personalità molto affini e complici. Con la sua scomparsa per me era venuta meno la figura di riferimento.


L’agenzia si era molto ridimensionata e mi ritrovai per essere l’unico account. Potevo basarmi solo sulla mia sensibilità ed esperienza del momento. Ero finito in mare aperto e dovevo imparare a nuotare da solo.



Ti ricordi le prime decisioni che ti trovasti a prendere responsabilmente da solo?


Dovetti prendere molte decisioni da subito: alcune vincenti, altre meno. Del resto, se avessi avuto l’esperienza di oggi le avrei affrontate diversamente.


Uno dei primi brand per cui lavorai fu Misura, proprio nelle prime fasi del suo ultimo rebranding. Il marchio stava passando da un posizionamento dietetico e “privativo” a un messaggio più aperto: funzionale sì ma, al contempo anche appagante. Era un periodo di passaggio molto delicato in Italia: solo 15 anni fa non esisteva ancora un’idea di benessere così allargata, libera e consapevole. Mancava la concezione di oggi rispetto ad alcuni prodotti di consumo; basti pensare al latte di soia.

Mi trovai dinanzi a interlocutori molto più senior di me, che pretendevano giustamente risposte e soluzioni di egual spessore. Ricordo di aver vissuto alcuni “brutti quarti d’ora”. Proprio lo scorso anno volli scrivere una mail all’allora direttrice marketing per salutarla e ringraziarla di avermi “sopportato” in quegli anni, ma anche formato e temprato, anche grazie a qualche “scoppola” meritata. La sua riposta fu sorprendente e molto lusinghiera nei miei confronti, la conservo con grande riconoscenza.

Ma per mia fortuna sono state molte più le volte in cui me la sono cavata. Una volta ricordo che ebbi un confronto molto acceso con un art director su un progetto “vitale” per l’agenzia. La sua visione era diametralmente opposta alla mia e lo avvisai che la sua soluzione ci avrebbe fatto perdere il cliente: così fu. Presi la cosa sul personale e decisi, una decina di giorni dopo, a seguito di una guerra interna molto stressante, di ripresentarmi improvvisamente dal cliente – a Rimini, da Milano – con il progetto impostato come auspicato. Il cliente non solo mi ricevette ma apprezzò - e molto - il nostro senso di responsabilità. Lo recuperammo e ci vennero affidate nuove commesse. Fu una bella soddisfazione, che mi aiutò non solo

ad avere più fiducia in me stesso, come professionista, ma anche a guadagnarmi un po’ di rispetto in più da parte dei miei colleghi (che avevano quasi il doppio della mia esperienza).


Ad ogni modo, al di là di questo aneddoto dal sapore “solista”, va precisato che la vera differenza la fanno i team e le decisioni condivise: il valore aggiunto di più teste, nel design, dalla strategia alla loro realizzazione, è imprescindibile.


Cosa significa essere un Senior Account? Quali sono le difficoltà e il know-how che bisogna acquisire per passare da Junior a Senior?


Più si va avanti e più si assumono sicurezza, consapevolezza, metodo, competenza tecnica, esperienza nel problem soving, oltre che la sensibilità utile a capire le esigenze del cliente. La capacità di essere risolutivi e ottimizzare la gestione dei progetti, dando sempre il massimo. Sono tutte skills che si acquisiscono negli anni.


Vi capita spesso che accanto a progetti che vengono gestiti integralmente, ve ne siano altri che rimangono allo stato embrionale e vengono abortiti perché non passano la selezione finale?


Questa logica è propria delle gare, che rappresentano orientativamente il 30% dei progetti che normalmente processiamo. Occasioni importanti per mettersi alla prova e incamerare nuovo lavoro, ma anche grandi emorragie di effort, quando non vanno a buon fine. Dal punto di vista del cliente, ritengo sia un diritto poter mettere alla prova più partner, non solo per ricevere soluzioni “pronte” ma soprattutto per capire l’approccio, il metodo, il valore aggiunto di ciascuno. Non esiste, a mio avviso, richiedere una consulenza professionale a titolo esclusivamente gratuito: testare più realtà – anche 4-5 contemporaneamente - senza neppure riconoscere loro un fee o rimborso per il lavoro svolto ritengo sia antietico e insostenibile.



Behind the project del tuo lavoro e quale è stato il massimo di progetti che sei riuscito a gestire nel più breve arco di tempo?


Non è tanto il numero di clienti a fare la differenza ma la loro declinazione ed estendibilità in più progetti. In questo momento ad esempio seguo solo tre clienti ma molto, molto articolati. Per ogni progetto mi interfaccio con team di almeno 8-10 persone, ognuna delle quali con un proprio ruolo e una propria esperienza specifica, le quali a loro volta devono rendere conto alle prime linee.


Nel branding in particolare, avendo il ruolo dei “fondatori” o dei coordinatori della marca, è naturale sviluppare tutti i supporti chiave per la corporate e le declinazioni commerciali.



Guardando al mondo degli influencer e la velocità con cui nascono, si sviluppano e si accantonano piattaforme e strumenti, non ti senti alle volte come un digital boomer? Le nuove generazioni che lavorano nel mondo della comunicazione rischiano di mandarci in pensione molto presto?


Credo fermamente che la cultura, la preparazione e l’esperienza facciano sempre la differenza, al di là dei fenomeni mediali del momento o a prescindere dallo strumento. Da strategist e professionisti della comunicazione dobbiamo considerare i canali più idonei ad ogni target e il loro tone of voice: siamo obbligati a conoscere perché perdere l’aggiornamento equivale a perdere soluzioni efficaci per comunicare ed occasioni in termini di business.


Come strategist, quando dobbiamo approcciarci a nuovi progetti rivolti perlopiù verso le nuove generazioni Z, facciamo tanta analisi, leggiamo articoli su piattaforme riconosciute ed approfondimenti sui trend, i cultural studies e le abitudini di consumo. Da qui, estraiamo gli insight che ci permettono poi di orientare parte della strategia.


Quanto alla seconda parte della domanda, è ovvio che le nuove generazioni risultino spontaneamente più intuitive verso piattaforme digitali, che si evolvono continuamente, e mi sembrano più preparate anche del punto di vista tecnico. Del resto, da che mondo è mondo, i più giovani sono sempre una risorsa importante che va guidata e valorizzata. La contrapposizione tra la saggezza dei senex e l’energia dei puer è un tema millenario: la sfida è saperle integrare e trovare il punto di equilibrio.


Sulla tua provocazione, noi boomer, come ci definiscono, abbiamo avuto l’occasione di vivere passaggi epocali, vedere il mondo analogico e predigitale in contrapposizione con l’iper-digitalizzato di oggi. Onestamente non farei mai a cambio e, comunque, per quanto mi riguarda, la pensione è ancora lontana: abbiamo ancora tante storie da vivere, che preferisco largamente rispetto alle “stories” da condividere.


Ultima domanda: cosa ti aspetti dal futuro? Quali sono i tuoi obiettivi di vita?


Ho sempre fatto molta fatica a vedermi proiettato troppo in avanti: si cresce, si cambia e con noi le nostre ambizioni. Alcuni obiettivi verranno raggiunti, altri si modificheranno – non per fallimento – semplicemente perché è fisiologico che le aspirazioni di oggi possano differire da quelle di domani.


Cerco di vivere il presente al meglio che posso, costruendomi ogni giorno un piccolo pezzo di passato che, quando mi guardo indietro, mi renda fiero del percorso che ho fatto, non solo professionalmente, anche come persona.





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